A volte una sola vita ne contiene diverse: questo è il pensiero che ho sempre avuto pensando a mio nonno paterno, Antonio Greco.

di Antonella Greco

La sua, di vita, costellata di vari episodi e momenti importanti, mi pareva a volte un film, in cui io, prima bambina poi adolescente, mi perdevo: nei suoi racconti e ricordi, fonte inesauribile di aneddoti e vicende.

Primo di cinque figli, rimasto giovane orfano di padre e di madre, affrontò da subito le difficoltà della vita, senza tuttavia mai perdere il sorriso e la simpatia.

I suoi racconti erano spesso caratterizzati dalle espressioni “lebbra, miseria, fatica” per spiegare quante difficoltà avesse incontrato nella sua giovane esistenza, eppure nel modo in cui lo diceva suscitava sempre tanti sorrisi, perché per lui la sofferenza non doveva essere raccontata pateticamente ma piuttosto con dignità e semplicità.

Visse purtroppo pienamente la seconda guerra mondiale, fino a esser fatto prigioniero dagli inglesi, quindi portato prima a Tripoli, quindi a “Nova Yorka”, come simpaticamente diceva lui.

Il suo bisogno di raccontare era forte e io non vedevo l’ora di ascoltare i suoi racconti.

Mi diceva che la prigionia, in particolare quella in America, lo aveva reso cittadino e lo aveva arricchito, se di ricchezza si può parlare.

Ci diceva che tutti lo chiamavano Tony marcando molto la “T” e che grazie alle sue capacità e al suo innato buonumore era riuscito a farsi benvolere e soprattutto si era inserito in quel particolare contesto, affrontando tutti i vari lavori particolari a cui erano chiamati i prigionieri.

Affrontati i vari mestieri, riuscì grazie al suo saper fare a farsi mettere in cucina, sia per poter mangiare qualcosa in più ma soprattutto perché in questo modo si sentiva più sicuro e al riparo da tante brutte situazioni.

Gli volevano tutti bene e alla fine aveva anche imparato a cucinare discretamente.

Mi diceva sempre “nipote mia, durante le guerre due cose non devono mancare mai: il grano e le patate”.

La sua prigionia la raccontava come un contemporaneo e vivo viaggio, quasi come un’esperienza che nonostante tutto lo aveva formato.

Era financo riuscito a mettere da parte dei soldi, che aveva provveduto a cucire in un cappotto per non essere scoperto, poi indossato durante il viaggio di piena estate che l’aveva visto tornare in quel di Rofrano; una lunga odissea che però, stante il suo innato spirito, raccontava comunque in maniera esilarante.

Fu così quando rientrò a Rofrano aveva potuto vivere il suo grande momento di protagonismo sociale, che mai avrebbe potuto immaginare. Mi raccontò che arrivò in paese vestito di tutto punto e che essendo un bel giovane non era passato inosservato.

Così, suo malgrado, dopo il naufragio di una storia d’amore che non aveva superato le purtroppo lunghe attese e le distanze imposte dalla guerra, non si perse d’animo e conquistò mia nonna di cui si peraltro si era innamorato subito.

Raccontava di come nonostante i tempi difficili fosse riuscito ad acquistarle l’abito nuziale più bello che mai avrebbe immaginato, sacrificio che si era potuto permettere proprio grazie ai risparmi americani. Raccontava anche di tutte le sigarette che aveva portato e distribuito ai vari giovani rofranesi.

Unitosi in matrimonio con mia nonna andarono a vivere a Santo Vito, in una piccola casa che lui amava chiamare, con quella particolare enfasi ironica che lo caratterizzava, “la villa”.

I suoi racconti spaziavano poi dal suo lavoro a servizio dei baroni rofranesi, per i quali la bisnonna Peppina, sua suocera, era la domestica, al suo essere diventato caporale delle donne di Rofrano impegnate nella raccolta della spigaddossa, vale a dire la lavanda.

Mi raccontava di come al mattino si svegliavano presto le donne rofranesi e che dopo essersi pettinate e lavate, preparato il pane saporito e quindi posto in un “muccaturo”, si affaccendavano a raccogliere la lavanda fino a sera.

Le intense giornate di lavoro si chiudevano con balli, canti e racconti attorno al fuoco e io immaginavo la bellezza di questi gesti e di questi piccoli accadimenti tipici della nostra affaccendata cittadina, che racchiudevano la semplicità della vita ma che ne esprimevano all’unisono la piena essenza.

I suoi racconti mi affascinavano e mi portavano in diversi mondi, facendomi capire quanto potesse esser importante l’approccio giusto alla vita e alle cose, in ultima istanza di come la sua vita fosse stata in fondo una grande avventura.

Anni dopo, quando durante i miei studi all’università, per l’esame di storia moderna, dovetti costruire l’albero genealogico della mia famiglia, lui ne fu estremamente orgoglioso e sapere tutte le sue origini (avevo consultato archivi comunali ed ecclesiastici di Rofrano) lo rendeva estremamente fiero.

Aveva in questo modo scoperto molte cose interessanti dei suoi avi, vicende che non aveva purtroppo conoscere grazie alla loro viva voce, dei loro mestieri e della loro longevità.

L’albero genealogico, per meglio dire la sua rappresentazione grafica, fu appeso nel “suo ufficio”, come amava chiamare un piccolo spazio posto vicino alla cantina.

Ne parlava con tutti “ngoppa ‘a strada”, cioè in via Tosone, dove amava chiacchierare e ridere del più e del meno con tutti i passanti.

Aveva continuato sempre ad avere una buona parola per tutti, ma soprattutto un sorriso e una pronta battuta.

Per me mio nonno è stato un grande esempio di vita, in quanto mi ha insegnato che ogni vicenda, anche la più triste o difficile, va sempre affrontata con la giusta dose di coraggio ma anche di ironia.

“Nonno ovunque tu sia so che stai facendo sorridere chi ti circonda”

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